Geopolitica per la Difesa e la Sicurezza

USA-EXIT ? UN CAMBIAMENTO STRUTTURALE PER I MERCATI E LA GEOPOLITICA

Ogni singolo giorno le notizie di dazi minacciati, imposti o temporaneamente sospesi dall’Amministrazione Trump, tengono i principali alleati degli USA ed i mercati con il fiato sospeso, ma c’è molto di più in gioco.

Qui di seguito puoi leggere l’articolo, completo di molti grafici e fonti, inoltre puoi ascoltare il PODCAST di questa analisi su Youtube e anche Spotify

Ad oggi sono stati firmati 45 ordini esecutivi e molti impattano le relazioni internazionali: non solo sul fronte tariffario ma anche congelando gli aiuti allo sviluppo estero USAID (tranne che per Israele ed Egitto), l’uscita dagli Accordi di Parigi sul clima, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu ed un ulteriore disimpegno dalla World Trade Organization.

Trump ha sempre sostenuto una dottrina di riduzione della presenza internazionale di forze USA in nome del nazionalismo di America First.

Tuttavia ha recentemente parlato di iniziative espansionistiche, evocando toni imperiali e ragioni di sicurezza nazionale: dall’ipotesi di acquisto della striscia di Gaza con trasferimento “altrove” della popolazione palestinese, all’annessione della Groenlandia, del Canale di Panama e auspicabilmente del Canada.

I rivali strategici, Cina in primis, stanno accogliendo con pragmatico realismo questo caos e la percezione di imprevedibilità di una controparte americana, sempre più transazionale e meno strategica.

Finite le illusioni è OPPORTUNO ADESSO FARE I CONTI, prendendo realisticamente alla lettera un Presidente che vede le tariffe come un pilastro della spinta repubblicana per rivitalizzare l’industria americana, rifare il sistema fiscale e usarli, al posto delle sanzioni, per influenzare i comportamenti degli altri Paesi.

In questo articolo ci focalizziamo sull’analisi di 5 passaggi chiave:

1)     in quale contesto si inserisce e che senso geopolitico ha la nuova guerra dei dazi

2)     di quanto stiamo parlando

3)     la Cina è già pronta

4)     l’Unione Europea prepara un difficile de-risking dagli USA

5)     il principale rischio è una discontinuità strategica

QUALE ORDINE LIBERALE BASATO SULLE REGOLE ?

Siamo già da tempo in un mondo post globalizzato: il segretario di Stato Marco Rubio ha dichiarato che “il momento unipolare è finito” e da 10 anni cresce l’evidenza di un graduale allontanamento degli Stati Uniti da istituzioni multilaterali e globali, che ha contribuito a creare e che sostengono l’ordine liberale basato sulle regole.

L’evidenza più forte è il rallentamento della globalizzazione.

Si è affermato un crescente ruolo dello Stato nell’economia attraverso politiche industriali estremamente incisive (dall’IRA al CHIPS & Science Act) e crescenti vincoli legali al commercio internazionale: le misure protezionistiche, nel 2024, sono state 2.808, tra dazi, sanzioni e quote, pari a circa 3,5 volte rispetto al livello pre-pandemico.

Queste misure hanno fortemente incentivato il settore privato a ristrutturare le catene del valore globale, a scapito della pura efficienza economica, per ragioni superiori di sicurezza nazionale.

Fonte: Global Trade Alert e International monetary fund, “Geopolitics and its Impact on Global Trade and the Dollar”

Nel frattempo è avvenuto un calo strutturale nel Soft Power dei paesi occidentali, rispetto a quelli del cosiddetto Sud Globale

Un primo sintomo è stata la mancata partecipazione di massa alle sanzioni contro la Russia e successivamente la guerra di Gaza ha avuto un impatto significativo sulla percezione di un doppio standard rispetto ai valori fondamentali.

In nome dei propri interessi nazionali, anche Paesi storicamente alleati o amici degli Stati Uniti, come Turchia e India, hanno assunto una postura geopolitica sempre più multi allineata, divenendo grandi acquirenti di materie prime energetiche ed armi russe, nonché percettori di crescenti investimenti diretti cinesi.

E poi è ritornato al potere Trump, dichiarando che: “Con l’aumento delle tariffe su altri paesi, le tasse sui lavoratori e le imprese americane diminuiranno e un numero enorme di posti di lavoro e fabbriche torneranno a casa”.

LA NUOVA GUERRA DEI DAZI NON HA SENSO GEOPOLITICO

Prima ancora del rischio di regionalizzare ulteriormente l’economia mondiale in campi geoeconomici rivali, tra America e Cina, i dazi annunciati il 1° febbraio sfidano la logica geopolitica, danneggiando più gli amici e alleati che i rivali strategici.

I dazi hanno già iniziato ad ampliare il divario diplomatico tra l’America ed il resto del mondo.

La Cina subirà un dazio aggiuntivo del 10%, oltre alle tariffe già esistenti, ma Messico e Canada, dopo la sospensione di un mese decisa il 3 febbraio, subiranno l’applicazione di un forte dazio del 25% sulla generalità delle proprie merci, salvo alcune eccezioni come le materie prime energetiche.

Queste misure tariffarie sono destinati a punire i tre Paesi per le loro eccedenze commerciali con l’America e per il loro fallimento nel fermare il flusso di droghe illecite nel Paese, ma è già stata annunciata l’intenzione di colpire i Paesi europei.

Allargando l’orizzonte, i Paesi più esposti sono anche quelli con economie più vulnerabili ad una guerra commerciale: Messico, Canada e Vietnam dipendono dagli stati uniti per il 50% – 90% delle proprie esportazioni di materie prime, semilavorati e macchinari.

Negli ultimi quattro anni i flussi commerciali mondiali hanno iniziato a ristrutturarsi in base a logiche geopolitiche.

Il McKinsey Global Institute, sulla base dei modelli di voto dell’Assemblea ONU dal 2005 al 2022, ha mappato i Paesi su una scala da zero a dieci: l’America si trova a un’estremità della scala, l’Iran all’altra.

Questa semplice misura permette di calcolare la “distanza” geopolitica coperta dal commercio: USA e Australia sono molto più vicine di quanto la distanza geografica suggerisca, il Canada è altrettanto vicino e il Messico è appena un po’ più distante sulla mappa geopolitica, con un valore di 3,9 su 10.

La Cina si trova all’estremità opposta della scala, con 9,6.

Fonte: McKinsey Global Institute su dati United Nations

Il fenomeno del friend-shoring si inizia a percepire, infatti la distanza geopolitica media del commercio è scesa da un picco di circa 3,5 nei primi anni 2010 a 3,1 nel 2023. Nella scala dell’Istituto, questa distanza corrisponde all’incirca a quella tra America e Turchia o tra Cina e Tunisia.

Come sostenuto dall’Economist, le nuove barriere tariffarie mirano a sostituire le importazioni con prodotti americani. Ma i dazi – e le ritorsioni a cui danno luogo – devieranno il commercio verso altri Paesi.

Paradossalmente le tariffe del 25% potrebbero dirottare parte del commercio verso la Cina, dato che le sue tariffe aumenterebbero solo del 10% e la svalutazione del renmimbi sul dollaro ha già parzialmente compensato tale impatto.

L’approccio transazionale unito all’insicurezza sulla tenuta degli accordi (vedi il rigetto del USMCA) segnala ai Paesi di non poter contare sull’America come partner commerciale credibile, riducendo il valore atteso di nuovi accordi.

Le nazioni di media grandezza già multi-allineate e perfino gli alleati dell’America potrebbero quindi essere incentivati a stringere legami più stretti con altre potenze economiche, rivali degli USA, aumentando nuovamente la distanza geopolitica del commercio.

DI QUANTO STIAMO PARLANDO

Scott Bessent, Segretario al Tesoro ed ex manager di hedge fund sotto George Soros, ha dichiarato che Trump userà le tariffe in tre modi:

  1. per porre rimedio alle pratiche commerciali sleali, rivitalizzando l’industria americana
  2. per aumentare le entrate del bilancio federale, finanziando l’estensione dei tagli fiscali del 2017
  3. per usarli come leva nei negoziati con le potenze straniere al posto delle sanzioni

E’ stata inaugurata una nuova agenzia per le entrate, l’External Revenue Service, che si occuperà di riscuotere i dazi e altre tassazioni imposte ai beni che provengono dall’estero, puntando a finanziare il taglio dell’aliquota dell’imposta sulle società al 15%, dall’attuale 21%, per le aziende che producono i loro beni in America ed il rinnovo delle esenzioni fiscali sulle persone fisiche.

Le misure fiscali annunciate dovrebbero portare a una perdita di entrate pubbliche di 4,6 trilioni di dollari in 10 anni. Il piano generale di Trump di aumentare le tariffe, se attuato in pieno, potrebbe portare da 2,5 a 3 trilioni di dollari nello stesso periodo di tempo, secondo Bessent.

I restanti 2 trilioni di dollaro dovrebbero provenire dai risparmi di spesa ottenuti attraverso riforme strutturali su larga scala delle agenzie federali, in fase di definizione grazie alla “consulenza e guida dall’esterno” fornita dal Department of Government Efficiency (DOGE), guidato da Elon Musk.

Il DOGE ha già ottenuto l’accesso al sistema di pagamento del Dipartimento del Tesoro, gestito dal Bureau of the Fiscal Service che eroga ogni anno trilioni di pagamenti, tra cui assegni della previdenza sociale, rimborsi fiscali e stipendi federali.

L’obiettivo dichiarato è tagliare fino a 500 miliardi di dollari all’anno di spesa del governo federale, pari a circa il 7% dei 6.700 miliardi totali.

Peter Navarro, consulente commerciale di Trump, ha detto che “Il presidente Trump vuole passare dal mondo delle imposte sul reddito (…) al mondo dove le tariffe, come nell’era del presidente William McKinley, pagheranno per un sacco di attività governative e abbasseranno le nostre tasse”.

L’obiettivo dichiarato è di portare le aliquote tariffarie medie sulle merci esportate negli Stati Uniti dall’attuale 2,5% (oggettivamente inferiore a quello della gran parte dei Paesi) fino ad un massimo del 10%.

Una delle principali società di consulenza economica indipendente al mondo, Oxford Economics, ritiene più verosimile un aumento “limitato” il cui punto di arrivo sia intorno al 6%, come negli anni settanta.

Fonte: Oxford Economics

Nello scenario “completo” in cui Trump faccia tutto quanto ha dichiarato, la tariffa media ponderata USA aumenterebbe di oltre +6 punti percentuali, arrivando al 8,5% medio, e ciò contribuirebbe a far calare il commercio mondiale del 6%, rispetto allo scenario di base, entro il 2030.

Le differenze principali tra lo scenario Trump limitato e quello “completo” riguardano tariffe generalizzate, anziché mirate, e una politica fiscale più aggressiva.

Le dichiarazioni sin qui rilasciate e gli ordini esecutivi emessi, per ora sono più vicini allo scenario a pieno regime, che quindi va attentamente monitorato.

I Paesi più impattati sarebbero non solo Canada e Messico, ma anche Vietnam, Cina e Corea con un calo della crescita del prodotto interno lordo tra il -1,8% e il -2,2% già entro il 2028 rispetto allo scenario di base; per l’Europa ci sarebbero impatti sensibili, in particolare per la Germania attesa ad una crescita ridotta del -1,1%.

Nello scenario “completo”, le perturbazioni finanziarie possono essere significative.

I rendimenti decennali statunitensi aumentano di 60 pb rispetto allo scenario di base, poiché la Fed reagisce con maggiore forza all’aumento dell’inflazione negli Stati Uniti (i rendimenti obbligazionari aumentano anche in altre economie), il dollaro guadagna il 3% su base ponderata per gli scambi, e ci sarebbe un’ampia svalutazione del renminbi cinese. Effetti sui mercati finanziari di questa portata si aggiungerebbero agli impatti negativi sulla crescita mondiale.

LA CINA E’ GIA’ PRONTA

I preparativi della Cina rispecchiano la strategia dell’amministrazione Biden di “investire, allineare e competere”, che prevedeva l’investimento nella forza interna degli Stati Uniti, l’allineamento con i partner e la competizione dove necessario.

Il programma di Pechino per superare i prossimi 4 anni, si concentra infatti sul rendere l’economia nazionale più resiliente, riconciliarsi con i principali vicini (vedi l’accordo con l’India su alcune aree contese) e approfondire le relazioni nel Sud del mondo.

La dipendenza commerciale della Cina dagli Stati Uniti è diminuita drasticamente, superando lo spostamento degli Stati Uniti dalla Cina, fin dall’ingresso nella WTO e ancora più rapidamente dopo la prima guerra commerciale del 2018.

Fonte dei dati primari: US Census, WTO. Elaborazione: econovisuals

Nel 2023 la Cina ha importato solo 165 miliardi di dollari di merci statunitensi, pari al 7% delle sue importazioni totali, principalmente in soia, greggio, prodotti farmaceutici e macchinari industriali. Gli Stati Uniti hanno importato beni cinesi per circa 448 miliardi di dollari, pari al 15% delle importazioni totali degli Stati Uniti, con categorie chiave quali elettronica, giocattoli e abbigliamento (fonte US Census Bureau).

Trump potrebbe essere in grado di ottenere alcune vittorie a breve termine, essenzialmente di natura economica e utili al consenso interno americano, ma i piani di Pechino guardano oltre.

Secondo Foreign Affairs, i leader cinesi rimangono convinti che le pesanti misure statunitensi abbiano il potenziale di minare le relazioni di Washington con gli alleati chiave e con i Paesi del Sud Globale.

Una nuova guerra commerciale consentirebbe quindi di giustificare riforme significative in patria e di rafforzare la posizione della Cina in un sistema commerciale globale riorientato.

Concretamente se Trump desse seguito alle dichiarazioni sul commercio e l’espansione territoriale, potrebbe danneggiare gravemente la credibilità e la leadership globale degli Stati Uniti, offrendo alla Cina l’opportunità di espandere la sua influenza più lontano e più velocemente.

In quest’ottica, la concorrenza economica passa in secondo piano, rispetto alla grande strategia del ringiovanimento cinese che mira a ristabilire il ruolo storico della Cina come superpotenza mondiale, sostituendo gli USA.

La Cina reagirà con moderazione e farà significative concessioni economiche agli USA, puntando ad ottenere in cambio contropartite geopolitiche che favoriscano quelli che Xi Jinping spesso annuncia come i cambiamenti che non si vedevano da un secolo“.

L’EUROPA PREPARA UN DIFFICILE DE-RISKING DAGLI USA

I paesi più a rischio di scontri tariffari con gli Stati Uniti saranno quelli che presentano sia squilibri commerciali che tariffe elevate.

Le tariffe europee sulle importazioni statunitensi sono già maggiori di quelle americane, anche prima che il meccanismo europeo di adeguamento delle frontiere del carbonio entri pienamente in vigore.

Alla fine di marzo, rientreranno in vigore le tariffe sospese dell’UE su circa 3 miliardi di dollari di prodotti statunitensi. Questa “guerra tariffaria congelata” è iniziata nel 2018, quando gli Stati Uniti hanno colpito quasi 7 miliardi di dollari di esportazioni europee di acciaio e alluminio con dazi, citando preoccupazioni per la sicurezza nazionale.

Le due parti hanno concordato una tregua temporanea nel 2021, quando gli Stati Uniti hanno parzialmente rimosso le misure e introdotto una serie di contingenti tariffari al di sopra dei quali vengono applicati dazi sui metalli, mentre l’UE ha congelato tutte le sue misure restrittive. Le quote statunitensi che hanno sostituito i dazi punitivi scadranno alla fine dell’anno.

L’esempio di Canada, Messico e Colombia, dove concessioni su temi che nulla hanno a che fare con il commercio, associato all’evocazione di eventuali contromisure tariffarie, ha portato a una pausa di un mese nell’applicazione dei dazi, è visto per ora come un segnale incoraggiante a Bruxelles.

L’idea di fondo è che aumentando le importazioni di alcune materie prime agricole, energetiche e di armi, comunque necessarie, si possa negoziare un sostanziale mantenimento del deficit commerciale e delle garanzie di sicurezza americane verso l’UE.

Se Trump, invece di contropartite politiche, pretendesse di ridurre drasticamente il deficit attraverso le tariffe doganali, costringerebbe l’Europa a reagire per tutelare la propria sicurezza economica.

Negli ultimi l’UE è stata molto attiva, siglando l’intesa Mercosur con l’America Latina e ampliando la nostra impronta globale con partnership economiche e strategiche in Giappone e Malesia.

Dal 2022 proseguono i negoziati su un accordo di libero scambio con l’India e l’intera Commissione UE si sta preparando ad una missione a New Delhi per rafforzare i rapporti commerciali con questo partner strategico.

Nel caso di un atteggiamento molto aggressivo da parte americana, si valuteranno misure mirate sul settore high tech, tema cruciale per i tycoon come Musk e Zuckerberg, particolarmente influenti presso la nuova amministrazione.

Le opinioni molto diverse degli Stati Uniti e dell’UE sulle questioni climatiche, la politica energetica e le valute digitali, sono punti di pressione molto significativi che inevitabilmente genereranno attriti nei prossimi due anni.

Il calcolo dell’UE e dei suoi Paesi membri non potrà tuttavia prescindere dalla dipendenza strategica verso gli Stati Uniti su tre fronti fondamentali:

  • principale alleato NATO e fornitore di Difesa e Sicurezza;
  • principale fornitore di Sicurezza Energetica (importiamo dagli USA il 15% del OIL e il 46% del LNG che consumiamo);
  • la dipendenza commerciale dell’UE dagli Stati Uniti sta aumentando, mentre la quota dell’UE nel commercio statunitense diminuisce

IL PRINCIPALE RISCHIO E’ UNA DISCONTINUITA’ STRATEGICA

La Grande Strategia Americana è rimasta coerente, fina dalla partecipazione alla prima guerra mondiale, all’obiettivo fondamentale di impedire l’emergere di un egemone regionale in una parte dell’Eurasia.

Durante la PRIMA GUERRA FREDDA la presidenza di Roosevelt, ha dato vita a un ordine multilaterale globale guidato dagli Stati Uniti ed ha annunciato l’alba del “secolo americano”.

Reagan cercò di massimizzare il potere militare ed economico degli Stati Uniti ed il suo fu un tempo di “pace attraverso la forza” che accelerò il crollo interno dell’Unione Sovietica.

Le amministrazioni americane hanno oscillato tra queste due visioni, spesso assumendo elementi di entrambe, ma hanno continuato a promuovere fino ad oggi il cosiddetto “ordine internazionale liberale basato su regole”.

Non si tratta di idealismo o globalismo, ma un calcolo strategico basato sulla convinzione di poter favorire maggiormente gli interessi nazionali:

  1. in un mondo aperto e basato su regole senza imperi chiusi;
  2. con la diffusione della democrazia e dello Stato di diritto;
  3. quando cresca anche la prosperità delle altre nazioni “partner”.

La dissoluzione dell’URSS nel 1991 segnò la fine della prima guerra fredda e l’avvio della fase strategica di EGEMONIA LIBERALE in cui gli USA, senza più concorrenti di pari livello, hanno cercato di ampliare l’ordine basato sulle regole e favorito la crescita economica attraverso la globalizzazione.

Dagli anni 2010 gli Stati Uniti si trovano in una terza era, in cui si stanno adattando a un nuovo periodo di COMPETIZIONE NELL’INTERDIPENDENZA economica e di sfide transnazionali, come il cambiamento climatico, le pandemie, tecnologie dirompenti come l’AI.

A fronte di tutti i cambiamenti degli ultimi 30 anni, la politica estera USA è rimasta stabile nella gestione reattiva della propria egemonia liberale.

Quello che Jake Sullivan, ex consigliere per la sicurezza nazionale, ha soprannominato un approccio “piccolo cortile, alto recinto” è diventato una strategia economica per ridurre l’interdipendenza con la Cina nei settori ad alta tecnologia dell’economia globale.

Gli sforzi di Biden verso il rafforzamento e la costruzione di nuove alleanze multilaterali, dalla NATO ad AUKUS, puntavano ad una competizione ideologica tra democrazia e autocrazia, nel contesto di una nuova guerra fredda per contenere la Cina.

Trump eredita i resti di queste epoche, ma ne rappresenta anche una nuova: l’era del NAZIONALISMO.

Aumentare gli ostacoli tariffari alla libertà del commercio internazionale, depotenziare le istituzioni multilaterali, “superare” il principio di inviolabilità dei confini, influenzare esplicitamente la competizione politica in altre democrazie, interrompere il sostegno allo sviluppo in aree particolarmente fragili ed esposte alla crescente influenza cinese e russa (come il Sahel e l’Africa equatoriale), sono azioni esecutive che la precedente amministrazione americana avrebbe definito “REVISIONISTE”.

La regione indo-pacifica è oggi il fulcro delle preoccupazioni economiche e di sicurezza. Tuttavia, la competizione di Cina e Russia agli interessi americani, si estende a tutto campo, dal Sud globale all’Europa.

Una strategia forte per rendere grande l’America ha la necessità strategica di fare causa comune con alleanze collaudate per moltiplicare le risorse statunitensi nel respingere le azioni avversarie.

In particolare, gli Stati Uniti hanno bisogno (come ampiamente dimostrato dall’amministrazione Biden) di rafforzare e collegare le loro alleanze europee e asiatiche per contrastare meglio la Cina e la Federazione Russa su entrambe le estremità della terraferma Europa-Asia.

Il modello di governance liberale dell’economia mondiale e l’alleanza transatlantica, con tutte le loro sviste e carenze, sono state forze che hanno contribuito alla stabilità e alla prosperità mondiale negli ultimi sette decenni.

Una deviazione anche solo temporanea da questa coerenza strategica, rischia di minare la coesione della rete di alleanze americane, favorendo lo sforzo concertato di Cina e Russia a modificare strutturalmente le regole che governano le relazioni internazionali.

Nel modo del Realismo geopolitico, gli interessi strategici sono permanenti, mentre eventuali sacrifici economici (e non solo) sono un prezzo che le Potenze in ascesa sono disposte a pagare.

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